Da una rivolta scolastica a una scuola di rivolta. Il Liceo autogestito di Parigi
di Giulio Vannucci- Pubblicato dalla rivista “Il Barrito de Mammut”, Napoli
“Quando qualcuno arriva al Lap, magari carico di una storia scolastica fatta di fallimenti e umiliazioni, la prima cosa che succede è che entra senza dubbio in un liceo, ma in un liceo in cui non c’è preside, non ci sono consigli di orientamento, consigli di classe, consigli di disciplina… in cui non ci sono voti. In cui non c’è obbligo di frequenza alle lezioni… Ecco il primo respiro di sollievo: la libertà. Ma non una libertà tout-court, ma la libertà di scegliere – che, si sa, è anche difficile”.
Lap vuol dire Lycée autogéré de Paris, cioè Liceo autogestito di Parigi. Mi ci sono imbattuto un po’ per caso, grazie a Félicité, un’ex allieva che mi ha fatto conoscere un buon numero di altri ex allievi, studenti e professori. Non esiste preside, non esiste personale scolastico di alcun tipo: tutta la vita del liceo è gestita da organi composti da studenti e professori e ogni decisione passa senza eccezioni dall’assemblea generale che si riunisce settimanalmente.
Come mi ha spiegato Wolf, attuale coordinatore del Lap, la fondamentale differenza da un liceo normale è nel senso che qui si attribuisce all’apprendimento: “Il motore della scuola tradizionale è la paura, degli allievi come dei professori. In generale, vai a scuola perché sai che il tuo unico obiettivo è avere quel diploma, e quindi hai il terrore della valutazione e del professore che la deve dare. Il professore lo sa e la sfrutta fino in fondo: e così si instaura un regime vero e proprio, in cui le motivazioni si riducono al terrore. Oggi mi sembra comunque che la situazione si stia un po’ ribaltando, che in realtà siano i professori ad avere paura degli studenti: ma cambia qualcosa? Se è la paura il motore di ogni azione, allora un individuo non può apprendere in modo sereno. Magari qualche volta imparare per terrore funziona, ma non sempre e a costi spaventosi. In realtà l’apprendimento è una cosa magnifica, perché volerlo negare? Tutti hanno voglia di imparare qualcosa, basta poterlo scegliere”.
È con questa filosofia che nel 1981 (anno in cui Mitterand va al potere e il governo francese è socialista) il ministro dell’istruzione Savary appoggia l’iniziativa di un gruppo di professori riunitosi intorno a Jean Lévy. Il progetto è quello di dare vita a un istituto pubblico che si ispiri alla pedagogia libertaria (“da Piaget a Dewey, da Neill a Freinet”) e a una buona dose di socialismo autogestionario, seguendo le orme del Liceo sperimentale di Oslo, in attività dal 1968. Come sottolinea Bernard, un decano del Liceo, “il Lap è innanzitutto un centro sperimentale, un luogo in cui vivere un altro modo di fare pedagogia e di ricordarlo alle istituzioni. È per questo che ospitiamo continuamente ricercatori delle università, del ministero o comunque delle istituzioni, che osservino e studino questa alternativa alle “prigioni di stato” – le scuole “normali”. E la continua ricerca serve ovviamente anche a noi, per il nostro agire”. Da quest’anno, poi, i risultati di queste ricerche sono condivisi e ridiscussi in una giornata di fine anno aperta ovviamente a tutti, ex allievi e curiosi compresi.
È il rifiuto della scuola come luogo formattante e frustrante a motivare i professori e gli studenti del Lap, è la consapevolezza che un sistema scolastico come quello francese (ben più asettico e settario del nostro!) “non formi all’esistenza, ma”, come mi ha spiegato Bernard, “crei solo piccole élite che abbiano l’unico scopo di autoriprodursi: è il potere che vuole dei cloni pronti a tutto per difendere lo status quo. E fa questo – e ci riesce – facendo credere che chi sa quelle nozioni sia migliore degli altri”. La risposta a ciò non può che essere anche politica: prima che studente o professore, chi è al Lap è “cittadino”. Anche nello statuto questi due livelli sono esplicitati: oltre alla trasmissione di sapere, è centrale, nel processo educativo, la conduzione e la condivisione della vita di questa piccola comunità.
La cosiddetta “struttura di gestione”, infatti, è tanto libertaria quanto rigorosa. L’équipe educativa, l’unico organo composto unicamente da professori, si riunisce una volta a settimana, tratta tutte le questioni inerenti alla didattica e si occupa dell’assegnazione dei nuovi professori, che possono accedere al Liceo autogestito unicamente su “chiamata”. Tutti martedì si riuniscono i gruppi di base, composti da tre professori e da una trentina di studenti, con lo scopo di discutere e votare ogni questione. I delegati di ogni gruppo di base si riuniscono tutti i giovedì mattina nella riunione generale di gestione, che discute i problemi emersi e riporta le nuove informazioni ai gruppi di base del martedì successivo. Gli altri studenti sono riuniti in commissioni, che si occupano dei settori specifici del liceo (la biblioteca, l’accoglienza, la caffetteria…). Quello che conta, ci tiene a spiegarmi Wolf, è la responsabilità della gestione quotidiana della propria scuola.
Oltre all’aspetto politico, il valore aggiunto del Liceo autogestito è anche legato a una didattica che supera la divisione in materie e singole nozioni. La mattina si tengono i corsi delle varie materie, quasi sempre sovrapposte e mai tradizionali e frontali, e nel pomeriggio si attivano una serie di atéliers e di progetti: corsi alternativi (dal teatro alla musica, dall’arrampicata alla cucina) tra cui scegliere il proprio investimento annuale o un’attività che dura un solo mese e mezzo. “Al Lap ci sono quattro domini in cui avviene l’apprendimento: la gestione, i corsi, gli atelier e i progetti. Sono inseparabili e ognuno, oltre alla formazione personale, serve chiaramente anche per il Bac [la maturità italiana]. Gli atelier servono per confermare un interesse o approfondirlo o magari per scoprire una vocazione, mentre il progetto serve a lavorare su un argomento per tutto l’anno, con un prodotto finale. In questo mondo in cui si cominciano un sacco di cose ma non se ne porta nessuna al termine, fare qualcosa che abbia un risultato finale tangibile è fondamentale. Qualcosa che (diciamolo come i vecchi gauchistes del novecento) io stesso ho fabbricato, investendo tempo e idee, un’opera in cui io alla fine mi riconosco, ottenendone anche uno sguardo su di me”.
Il Bac quindi (ed è forse l’aspetto che più colpisce ed attrae) non è lo scopo di chi entra al Lap. Per gli studenti dell’ultimo anno sostenere l’esame o meno è una scelta nient’affatto obbligata, tanto che solo il trenta per cento degli allievi decide di affrontare la prova finale della scuola secondaria – riuscendoci quasi sempre. “Ti mettono nella testa da subito che il Bac sarà il tuo obiettivo imprescindibile: vai avanti fino al Bac e sarai un buon elemento della società. Gli studenti parlano sempre del “mio Bac”? Ma perché tuo? Lo hai mai scelto? Certo, personalmente penso che sarai davvero libero di rinunciarci solo una volta che lo avrai preso. Ma non può essere il tuo unico obiettivo”.
Le istituzioni tollerano in silenzio e solo grazie ad una retorica che non sorprende: il Liceo Autogestito è accettato (e finanziato, quindi!) solo in quanto capace di far diplomare una piccola ma significativa parte di quegli studenti che avrebbero presto abbandonato la scuola. Insomma, il valore del Lap sarebbe quello di un centro di recupero per recidivi scolastici.
Resta il fatto che, come dice Bernard “entrare al Liceo autogestito di Parigi significa prendersi la responsabilità della propria formazione, senza delegarla a nessun altro, neanche alle istituzioni e alle loro certificazioni da cui, volente o nolente, liceale o privatiste, devi passare”.
Non lo nego: entrare anche per poco tempo al Liceo autogestito di Parigi è entusiasmante. Sarà per la sensazione da “liceo dei sogni”, sarà per il clima così assurdamente diverso da quello di una qualunque scuola superiore italiana, sarà che chiunque viene accolto ma nessuno può parlare con il preside (perché non esiste). Certo, non tutto funziona come dovrebbe, ci sono problemi ancora apertissimi e dibattiti in corso all’interno del Lap stesso. La partecipazione degli studenti non è ancora così totale e l’equipe educativa fatica a trovare professori che decidano di intraprendere la via del Liceo autogestito (anche perché insegnare al Lap significa non guadagnare punti nella graduatoria per l’insegnamento).
Ma è innegabile l’utopia, la forza dell’essere totalmente pubblici e quella di non possedere alcun requisito per essere ammessi, se non un sostanziale rifiuto della scuola tradizionale e la voglia di aderire al progetto del Lap.
“Venire al Lap significa avere più occasioni per capire chi si è e come avvicinarvisi il più possibile. E la cosa più bella è che nel tentativo di capire il tuo posto nel mondo, gli altri sono per forza implicati. L’assenza di paura e di gerarchie è una spinta molto potente. E nella fiducia reciproca mi posso anche permettere di farti presente, da professore, che non stai lavorando, che stai buttando il tuo tempo. Il punto è che qui non si bara”.
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