Recensioni film

FILM – Recensioni

Zero in condotta di Jean Vigo, Francia 1933, b/n, 47’
Al loro rientro dalle vacanze tre studenti di un collegio di una città della provincia francese diretto da un nano, dopo aver fatto amicizia con un inserviente, vengono puniti per schiamazzi. Una decisione ingiusta aggravata da una nuova punizione il giorno seguente per essersi alzati tardi. A ciascuno di loro verrà dato “zero in condotta” e revocato il riposo settimanale. Per tutta risposta i ragazzi organizzano, durante una cerimonia ufficiale, una furibonda e allegra rivolta che assume i contorni di una vera e propria ribellione anarcoide, venata di accenti surreali contro il potere e i suoi maldestri servitori (rettore, insegnanti, gente per bene).
Ciò che sorprende in questo autentico capolavoro sfortunato (il film infatti fu giudicato antifrancese e bloccato in Francia per dodici anni per il suo carattere disfattista!) è la volontà di affermazione di un principio assoluto di libertà e di poesia della libertà, implicita nel suo stesso farsi come gesto trasgressivo, provocatorio. In tal senso Vigo (figlio di un anarchico morto in carcere) fa proprie le istanze che furono del surrealismo, riannodandole, non a caso, a un racconto di ribellione collettiva, di scoperta di un’energia vitale riposta nel mondo degli adolescenti. I suoi umori, autenticamente anarchici, trascendono i limiti di una critica all’istituzione repressiva, proprio nella sequenza finale in cui la rabbia dei ragazzi è rivolta, anticipando caratteristiche del cinema del grande Luis Buñuel, contro i professori e i genitori, emblemi viventi di un potere coercitivo.
Opera prima di un regista geniale, che ha al suo attivo alcuni documentari e solo due opere di fiction (ricordiamo l’altro capolavoro, L’Atalante, 1934), morto a soli 29 anni nel ’34, Zero in condotta resta un punto fermo per qualsiasi discorso sulla ribellione giovanile intesa come momento di “formazione” e di conoscenza della vita. Dalla naturalezza del mondo degli adolescenti si passa alla crudeltà quasi caricaturale del mondo degli adulti: i primi sono creature vive, gli altri semplici manichini; e in questo duplice ritratto è possibile cogliere lo spirito di questo regista sinceramente anarchico.
Dalla sua lezione di vitalità, prenderanno le mosse autori come François Truffaut, Marco Bellocchio e le diverse Nouvelles Vagues europee, che al sentimento di rivolta contro le istituzioni uniscono quello ancora più radicale contro il linguaggio della tradizione.

I figli della violenza (Los olvidados) di Luis Buñuel, Messico 1950, b/n, 88’
Alla periferia di Città del Messico, Jaibo è il capo di una banda di teppisti. Pedro, che senza volerlo partecipa all’aggressione di un mendicante cieco e all’uccisione di un ragazzo della banda, diventa succube di Jaibo. Jaibo seduce persino la madre di Pedro, giovane vedova assetata d’amore. Per salvarsi, Pedro cerca lavoro in un negozio, ma accusato ingiustamente di furto(ancora una volta commesso da Jaibo), viene mandato in riformatorio. Nonostante il suo comportamento ribelle, il direttore ha fiducia in lui e gli affida del denaro per fare acquisti in città, naturalmente Jaibo ruberà questi soldi a Pedro e il ragazzo per difendersi cercherà di ucciderlo, ma sarà lui a morire. Il mendicante cieco, che aspettava il momento di vendicarsi, denuncia Jaibo alla polizia che lo ferisce a morte in un agguato. Il suo corpo verrà gettato dal nonno in un deposito di spazzatura.
Con I figli della violenza, il Maestro Buñuel ci dà un saggio di rigore morale e stilistico assoluto; la descrizione del suburbio messicano e dei suoi ragazzi, segnati da un’intima sofferenza più forte dell’odio per i loro simili, si mantiene costantemente sul filo dello sguardo distaccato, che non indulge sulla soggettività dei personaggi. Come egli giustamente rileva a proposito di Verso la vita di Ekk: “lì tutti i ragazzi delinquenti diventano buoni. Io credo che se si mostra nella società borghese un professore comprensivo, che aiuta i ragazzi disturbati o i ragazzi delinquenti, non per questo si giustificano le mostruosità di una società ingiusta”. Sospeso tra crudo realismo e squarci visionari, il film verrà ricordato come punto di riferimento essenziale per una lettura “critica” della società contemporanea, nei suoi microcosmi alienati e concentrazionari (periferie urbane, carceri minorili), da molti autori contemporanei. la “lezione” di resistenza umana e insieme di crudeltà e innocenza del personaggio di Jaibo è tra le più impressionanti e realistiche icone della ribellione giovanile. Qui sta tutta la differenza che separa lo spagnolo dal sovietico Ekk o dall’italiano De Sica. Buñuel non ha le inclinazioni del primo per il pathos e la pedagogia, e respinge il pur misurato – in Sciuscià – sentimentalismo del secondo. Non concede nulla né all’ottimismo programmatico né alle consolazioni di una possibile, o auspicata, solidarietà tra gli umili. Nessun omaggio a Rousseau, né nei caratteri dei personaggi né nelle immagini, gli uni e le altre predisposti per scoprire la verità di superficie (la degradazione provocata dalla miseria) e ad aprire qualche spiraglio sulle zone oscure (la sessualità, il sadismo, le rimozioni) della coscienza. Goya, sul fondo, offre l’avallo della cultura da cui Buñuel proviene. L’orrore dentro la vita quotidiana, viene riprodotto dal regista, contrariamente al suo modello, con perfetta indifferenza. Non si preoccupa neppure delle forzature inevitabili del melodramma popolare: fanno parte anch’esse di questa surrealistica “obiettività”.

I quattrocento colpi di F. Truffaut, Francia 1959, b/n, 93’
Antoine Doinel vive con i genitori che non lo capiscono e lo trascurano. Il ragazzino, ribelle alla scuola e agli adulti in generale, trova ogni pretesto per combinare qualche guaio, come quando inventa la morte della madre per giustificare l’assenza dalle lezioni. Per evitare le punizioni spesso si nasconde a casa di René, suo compagno di classe e di scorribande. A causa del furto di una macchina da scrivere, viene arrestato e mandato in riformatorio. Ma durante una partita a pallone riesce a scappare e a raggiungere finalmente il mare che non ha mai visto.
I quattrocento colpi (che in francese sta a significare “combinarne di cotte e di crude”) inaugurò il nuovo corso del cinema francese e la carriera di François Truffaut. Ciò che ancora oggi sorprende nel suo film è il delicato equilibrio tra la trasfigurazione in poesia del tempo che corre, di quella sottile malinconia che avvolge il protagonista (Jean-Pierre Leaud) fin dalle prime sequenze, tra la descrizione realisticamente minuziosa dell’ambiente di provincia e l’intima complessità di un personaggio che solo con la sua presenza sulla scena, scardina ogni certezza stilistica e morale su cui poggiava da troppo tempo il cinema francese (e non solo). E’ la lezione di Vigo, attualizzata in senso più intimo che rivoluzionario, e che in seguito aprirà a una esplorazione sempre più appassionata del mondo degli adolescenti. E come sempre nelle sue opere, i libri e il cinema sono le uniche, vere possibilità di salvezza per i piccoli Antoine cresciuti senza amore.

Il ragazzo selvaggio di François Truffaut, Francia 1970, b/n, 85’

Estate 1793: all’istituto nazionale sordomuti di Parigi arriva un “ragazzo selvaggio”, ritrovato allo stato primitivo nella foresta dell’Aveyron. Contro il parere dei colleghi, il dottor Itard (interpretato dallo stesso Truffaut) lo porta a casa sua e con l’aiuto della governante cerca di educarlo al linguaggio. Ispirato a un fatto vero, raccontato dal dottor Jean Itard alla fine del ‘700, Il ragazzo selvaggio è un film saggio di grande e intensa poeticità, strutturato intorno al rapporto tra medico e paziente, oltre che una profonda riflessione sul tema dell’educazione e sulla natura della relazione che si viene (si vorrebbe dire: che si deve) stabilire tra insegnante e discente. Un atto di fiducia e di speranza nelle possibilità della crescita al di fuori (e a volte anche contro) le norme ufficiali.

Il dottor Korczak di Andrej Waida, Polonia 1990, b/n, 113’
Il film racconta la storia di Henryk Goldzmit (1878-1942), medico e educatore polacco che come scrittore (in particolare di saggi sull’educazione) usò lo pseudonimo di Janusz Korczak. Attivo a Varsavia, rimase nella città anche dopo l’occupazione nazista occupandosi della scuola da lui fondata che raccoglieva oltre 200 orfani, provenienti per la maggior parte dal Ghetto di Varsavia. Nonostante gli fosse stata offerta la possibilità di fuggire e riparare in Svizzera, resterà accanto ai suoi bambini accompagnandoli fino ad Auschwitz, dove morirà insieme a loro. Wajda riesce a fare un film sulla sopravvivenza del Bene e sulla santità laica del protagonista senza cedere alla retorica, realizzando un film forte e straziante. Pur concentrandosi sulla tragedia dello sterminio, il regista sa suggerire la grandezza e la forza della visione educativa di Korczak.

Sta fermo, muori e resuscita di Vitali Kanevski, Urss 1990, b/n, 92’
Nel 1947, in una cittadina della Siberia trasformata in lager dove prigionieri giapponesi e detenuti politici vivono a fianco delle loro famiglie, il dodicenne Valerka – novello Oliver Twist cui la trama deve più di qualcosa – cerca di sopravvivere tra l’orrore quotidiano e le regole della repressione grazie al suo vitale ribellismo e soprattutto all’affetto della coetanea Galia. Sconvolgente opera prima di un regista dal passato tumultuoso e controverso, il film racconta con uno stile immediato e nervoso la condizione terribile di ragazzini e adulti in una zona lager della ex Urss. Nessun romanticismo, nessun moralismo ideologico: solo la voglia di registrare come il Potere faccia perdere all’uomo la propria dignità. Ma anche come si possa mettere tale Potere alla berlina: memorabile la scena in cui Valerka intasa i bagni della scuola durante una cerimonia ufficiale (e qui il riferimento a Zero in condotta è evidente). Circondati da un fango onnivoro e da una desolazione che produce solo egoismo, i personaggi del film sono il ritratto terribile del fallimento di ogni illusione e di ogni riscatto che non provengano dalla forza dell’amore.

La classe di Cantet, Francia 2008, col. 112’
La classe (ma il titolo originale è Entre les murs) è la storia di un anno di vita di una classe multiculturale di quattordici-quindicenni nella banlieu parigina: un’età difficile, dal linguaggio a volte involuto, oscuro e aggressivo. Esmeralda, Souleymane, Khoumba e gli altri, tra il desiderio di imparare, di diventare grandi e l’indifferenza e il rifiuto per tutto quello che rappresenta la scuola, prigionieri, dentro le mura, di un’istituzione che li guarda con sospetto e che li costringe per mesi e mesi ad una convivenza non scelta e ad un confronto continuo. Essere insegnante in queste condizioni non è facile. Tra frustrazione e senso di onnipotenza perdere di vista l’obbiettivo o compiere un passo falso non è così difficile. E con i ragazzi basta poco per perdere la loro stima. Tratto dall’omonimo libro di François Bégaudeau, qui co-sceneggiatore ed encomiabile protagonista, il film “condensa il fallimento dei sogni di democratizzazione della scuola di massa nella vicenda di Souleymane, il ragazzino di colore provocatorio e strafottente su cui si abbatte l’autoritarismo efficiente  e impersonale della burocrazia scolastica francese” mettendo in evidenzia i mali “classici” della scuola: “la sua inefficacia e irrilevanza nell’adempiere a quello che dovrebbe essere il suo primo mandato, ovvero istruire; il suo omologare le differenze individuali e acuire quelle sociali; il suo consolidare, attraverso un’organizzazione interna rigida e gerarchica, un ordine autoritario…” (Luigi Monti).

Diario di un maestro di Vittorio De Seta, Italia 1972, b/n 290’

In un quartiere della periferia romana i ragazzini disertano la scuola rifiutando ordine e disciplina. Sono i figli sbandati del proletariato urbano, insofferenti a qualsiasi ipotesi d’integrazione. Un  maestro, animato da grande coraggio e umanità riuscirà a recuperarli, servendosi di un metodo educativo che consiste nel cercare in ognuno di loro le ragioni del proprio disagio contrapponendovi la prassi dell’istruzione come forma di libertà e di emancipazione. Vittorio De Seta, fedele a un cinema di impegno sociale e di sperimentazione linguistica, affronta dall’interno una nuova metodologia didattico-pedagogica. Racconta un’esperienza educativa diretta che considera il giovane come soggetto attivo nel lavoro civile e appassionato, ma al tempo stesso la grande umiltà del maestro. Tratto dal libro di Albino Bernardini, Un anno a Pietralata.

Il cammino verso la vita di N. Ekk, Urss 1931, b/n, 110’
L’importanza di questo film risiede nel felice tentativo di coniugare discipline tra loro opposte come metodo pedagogico e linguaggio “poetico” del cinema, servendosi di uno stile realistico e di un montaggio d’avanguardia, in una dialettica tendente a far affiorare il significato profondo affidato al metodo educativo di recupero alla “vita” di un gruppo di delinquenti minorenni. Siamo nel 1923 e la commissione per la gioventù cerca di far fronte al problema dei ragazzi abbandonati per le strade. La rieducazione è affidata a una comunità dove sarà il lavoro a far riscoprire la propria dignità, nonostante il tentativo di riportare i giovani nelle strade da parte di una banda di ladri, tentativo destinato a fallire grazie proprio alla determinazione dei ragazzi stessi.

Animal house di John Landis, Usa 1978, col. 109’
In un prestigioso college americano un gruppo di studenti, tra cui uno particolarmente scatenato (il grande Belushi), organizza festini e droga party, dove sperimentano tra frizzi e lazzi, quella libertà e licenza, altrimenti impossibili fuori, nel mondo adulto. L’archetipo della guerra tra bande rivali conosce un trapianto neppure insolito nell’angusto scenario del college: gli scatenati, gli irriverenti, gli sbracati (capitanati da un Belushi che afferma con una battuta che diverrà memorabile e ultracitata: “Quando il gioco diventa duro, i duri cominciano a giocare”) fronteggiano gli allineati, gli educati, i ragazzi per bene (quando Reagan e i suoi yuppies dovevano ancora prendere il potere). Modello insuperato di college movie, Animal house non nasconde una verve programmaticamente dissacrante e presenta momenti di autentica comicità irriverente non disgiunti da un sincero spaccato generazionale, colto peraltro nel suo istante più emotivo e goliardico.
Anche se esula dal contesto educativo-libertario, vale la pena ricordare il capolavoro di John Landis con John Belushi, The Blues Brothers del 1980, messinscena del sogno collettivo di una libertà basata sulla musica e sull’irriverenza ad ogni potere costituito.

Aule turbolente di Spike Lee Usa 1988, 114’, col.
In un clima da musical contemporaneo, uno studente di colore lotta per far valere i propri diritti e quelli degli altri studenti che, dal canto loro, sembrano piuttosto impegnati in stupide dispute e intrattenimenti goliardici. Ciò non impedirà comunque al giovane nero di ottenere con fatica qualche risultato.
Il film è in grado di trasmettere la dimensione del caos, vista però nella sua dimensione più scanzonata, nel microcosmo giovanilistico del campus universitario, destinata a diventare uno stereotipo negli anni a venire.

Another country di Marek Kanievska, Gran Bretagna 1984, 90’, col.

Un’ex spia inglese del Kgb rievoca, da vecchio, gli anni trascorsi tra le mura di un college aristocratico negli anni ’30 dove aveva subito al rigidissima disciplina dei professori, l’ipocrisia e il tradimento dei compagni, le punizioni dei superiori che non gli perdonavano la superbia e la diversità a causa della quale egli stesso diventa ben presto la pietra dello scandalo del college.
Pochi film inglesi hanno saputo raccontare con la stessa efficacia l’ambiente perversamente ipocrita dei college aristocratici e neppure tracciato il ritratto a tutto tondo di un autentico spirito ribelle non per vocazione, ma per reazione a un ambiente visto come ripugnante. Arrogante e beffardo, oltre che orgoglioso della propria diversità, egli è un personaggio capace di incidere nella memoria anche grazie a una scelta stilistica che privilegia lo sguardo critico sull’ambiente claustrofobico e sulle assurde gerarchie che ne determinano il fulcro, sull’ambigua atmosfera di rivalità e di sospetto che preannuncia il rito sadico delle punizioni elevato a sistema di educazione esemplare.

Gli anni in tasca, di François Truffaut, Francia 1976, 104’, col.
Storie di ragazzini s’intrecciano in una vicenda corale che si svolge a Thiers, cittadina dell’Alsazia. Al centro, i sentimenti, i problemi con gli adulti, le fantasticherie, i drammi e i primi amori del gruppo di ragazzini in attesa delle vacanze estive. Gli adulti stanno a guardare, spesso indifferenti, talvolta crudeli. Un intenso film corale, composto da tante microstorie che Truffaut intreccia con raffinata e sensibile fluidità, evitando la frammentazione in sketch o episodi. Sempre più lontano anagraficamente dal mondo dell’infanzia ma profondamente partecipe al suo spirito, il regista ribadisce la lotta per la sopravvivenza dei più piccoli, a cui dimostra in ogni inquadratura il suo amore, il suo rispetto e la sua fiducia: bisognosi di affetto, anarchici nei comportamenti, costretti a sperimentare la negazione dei proprio desideri ma capaci, alla fine, di colmare il vuoto perché “hanno la grazia e la pelle dura”. Truffaut dimostra di avere la mano giusta per raccontare i suoi ragazzini, passando dall’umorismo all’amaro.

La frattura del miocardio di Jacques Fansten, Francia 1991, col, 100’

Per evitare l’orfanotrofio, Martin decide di non denunciare la morte della madre (per frattura del miocardio, spiega un compagno) e occultarne il cadavere, aiutato nell’operazione dai compagni di scuola. E’ una simpatica variazione sul tema antico del passaggio dall’infanzia all’adolescenza e dell’incomprensione che il mondo degli adulti ha per la libertà dei bambini, con una sincerità di fondo (e nei momenti migliori anche una certa delicatezza) che ne fa superare i difetti.

Belli e dannati di Gus Van Sant, Usa 1991, col., 105’

E’ il capolavoro di Gus Van Sant, cineasta americano d’origine olandese, sensibile alla tematica della ribellione giovanile (ricordiamo almeno Drugstore cowboys, Da morire, Elephant, Last days,). Vita spensierata e tragica di due ragazzi ai margini della cosiddetta “normalità”. Uno (Keanu Reeves) è il futuro erede di una fortuna, l’altro (River Phoenix) invece un narcolettico e drogato disperato alla ricerca della propria madre. Due figure differenti ma speculari, il cui destino si raccorda con la dimensione della giovinezza. Entrambi si prostituiscono per denaro e ruotano intorno alla figura shakespeariana (si rifà in effetti al Falstaff) di un vagabondo demiurgo che vive in un grande albergo dimenticato. Se il primo, a compimento del suo diciottesimo anno sarà un giovane ricco, pronto per amore di una ragazza italiana a entrare in società, l’altro seguiterà a viaggiare per le strade d’America accompagnato dalla malattia che ormai è diventata compagna della sua esistenza. Dietro l’apparenza del road movie si cela una metafora sull’adolescenza come esperienza e come educazione alla vita. Spensieratezza e tragedia restano unite da un comune denominatore, la vita sulla strada, e tuttavia si separeranno quando scatterà per uno di loro due il diritto alla propria appartenenza sociale e familiare. Da questo specifica angolazione il film di Van Sant è  altresì una metafora evidente di due concezioni antitetiche dell’esistenza e dell’arte: quella “formalistica” che sperimenta l’abbrutimento come “diversità” e quella che della propria diversità è invece e consapevolmente prigioniera.