Luigi Monti, vita di Fernand Deligny

Pubblicato su “Lo Straniero”, n. 97, luglio 2008

 Si definiva un deragliatore, uno che tentava di far uscire dalle rotaie bambini e adolescenti la cui condizione sociale o psicologica costringeva a percorsi obbligati che quasi sempre trovavano compimento nei riformatori, nelle case di rieducazione o nei manicomi. Educatore anomalo, defilato, antiaccademico, progressista a impronta libertaria, Fernand Deligny ha lasciato molti scritti ma nessuno che intendesse “sistemare” la sua pedagogia.

In Italia ha conosciuto un brevissimo periodo di diffusione (che non ha lasciato traccia nei nostri manuali di pedagogia) verso la metà degli anni ’70 grazie soprattutto a I vagabondi efficaci, Jaca Book, che raccoglie gli scritti dedicati agli anni trascorsi con bambini devianti e disturbati, e a Una zattera sui monti, uscito per le edizioni L’erba voglio di Fachinelli, che racconta in una forma sincopata e anti-narrativa l’esperienza con i bambini autistici e mutacici sui monti delle Cévennes, portata avanti per trent’anni, fino alla morte, nel 1996.

Nato nel 1913, maestro più per necessità che per formazione, si ritrova, poco più che ventenne, a insegnare in una classe differenziale di Parigi. È qui che nasce l’attrazione per “questa misteriosa lordura sociale dell’infanzia disadattata”. Nel ’39, poco prima dello scoppio della guerra, diventa istitutore nell’ospedale psichiatrico di Armentières a pochi chilometri da Dunkerque, al Padiglione 3, il reparto riservato a bambini “disadattati, criminali, asociali, caratteriali e irrecuperabili”: queste le diagnosi di allora, non poi troppo diverse nella matrice culturale, e negli effetti, da quelle di oggi. Piccoli vagabondi che appiccano fuoco ai covoni delle fattorie, rubano il carbone sulle chiatte, “rifiuti di meno di diciotto anni che compiono crimini e sono ingrati, pubblicassistenziano e si masturbano l’esistenza”.

Approfittando del caos della guerra, Deligny rivoluziona le condizioni di vita del reparto: sopprime le sanzioni e introduce la figura del guardiano-educatore: operai tessili disoccupati, artigiani, ex detenuti le cui capacità manuali, la cui resistenza fisica e disponibilità Deligny cerca di mettere a frutto, diffidando delle corporazioni, dei tecnicismi e dei professionismi. Nel solco delle sperimentazioni di Célestin Freinet e dei primi Cemea (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva), organizza uscite, giochi, attività sportive, laboratori artistici e artigianali. Ben presto però il suo approccio radicale, ironico e malinconico segnerà tutta la distanza da una corrente, l’attivismo democratico, di cui si sente sicuramente depositario, ma dalle cui derive omologanti non smette di mettere in guardia: “Ogni sforzo di rieducazione non sostenuto da una ricerca e da una rivolta sa troppo rapidamente di biancheria per imbecilli dove ristagna l’acqua benedetta. Ciò che noi vogliamo per questi ragazzi è che imparino a vivere, non a morire”. Aiutarli, non amarli, è la formula che racchiude la sua critica a tutte le ideologie dell’infanzia del dopoguerra.

Nel 1945, l’Associazione regionale di difesa dell’infanzia e dell’adolescenza gli affida il compito di organizzare e animare il primo Centro d’osservazione e smistamento della regione di Lille: si trattava di stare per tre mesi con i minori che avevano rubato, vagabondato, “coloro i cui genitori erano in via di decadimento.” Osservarli, intuirne talenti e potenzialità, liberarne l’immaginario e orientarli verso un collocamento professionale o formativo.

Dopo poco più di un anno, la sua triplice dissidenza – nei confronti del sistema educativo, delle modalità di selezione degli educatori e della divisione del lavoro tra le istituzioni abilitate – lo costringe a chiudere. Il titolo della cronaca del suo soggiorno al Centro d’osservazione, I vagabondi efficaci, è già un piccolo manifesto pedagogico e marca tutta la distanza fra la funzione di normalizzazione e controllo sociale che le istituzioni gli chiedono e il suo piano di ricerca e rivolta: “vagabondi inefficaci, piccolo popolo di solitari, gli uni rifiuti umani, incontestabilmente, gli altri speranza di un mondo che rischia sempre di crepare di docilità.” Il problema, prima ancora pedagogico che politico, non è quello di normalizzare dei disadattati, ma di rendere efficace il loro disadattamento, di creare le condizioni perché l’“inefficacia”, alienante, manipolabile e autolesionista del loro disagio, possa trasformarsi in autodeterminazione e in critica efficace all’ordine meschino che pretende di guarirli e che invece può al massimo – questo il basso continuo di tutto il lavoro e l’opera di Deligny – essere da loro guarito.

Solo con la bellissima corsa verso il mare di Antoine Doinel, con la quale Deligny suggerì a Truffaut di chiudere I 400 colpi – idea che gli venne sicuramente dai ricordi personali del mare del nord e dalle fughe dei ragazzini dal manicomio e dal Centro di osservazione di Lille – seppe spiegarci altrettanto bene il rapporto che esisteva tra i suoi “vagabondi” e la corruzione dell’ordine sociale che la loro devianza mostrava in tutta la sua evidenza.

È con queste intenzioni che, nel 1948, col sostegno clinico e organizzativo di Henri Wallon, crea l’organismo sperimentale della Grande cordata, realizzata su richiesta dell’Ufficio pubblico di igiene sociale che gli domanda di occuparsi dei giovani incollocabili con i quali la psicoterapia è inefficace. Ancora una volta si oppone al prevalere del modello “diagnosi-prognosi”, mettendo in piedi una rete per la presa in carico, “in libera cura”, di adolescenti caratteriali, delinquenti e psicotici, che non sembrano poter migliorare attraverso la clinica o la comunità terapeutica.

Interrogato spesso sul metodo, Deligny sostiene provocatoriamente di non averne mai avuti. Non si tratta di metodi, scrisse in più di un’occasione, ma di “una posizione da tenere, a un dato momento, in luoghi del tutto reali, nelle occasioni più concrete possibili.

Presa di posizione al Padiglione n. 3: nessuna sanzione.

Presa di posizione al Centro d’osservazione di Lille: la porta sempre aperta, i ragazzi sempre liberi.

Presa di posizione della Grande cordata: nessun letto, né istituto, né focolare e una rete di soggiorni di prova attraverso tutta la Francia, avente come base la rete degli Ostelli per la gioventù e qualsiasi altro luogo in cui ‘si’ volesse prendere come ospite un ragazzo della Grande cordata.”

Si trattava per Deligny di fare “causa comune” con i bambini, di criticare, attraverso il loro punto di vista, ma senza paternalismo, le istanze educative, mediche o giuridiche, di costruire un ambiente educante piuttosto che un insieme di regole astratte, di preferire l’invenzione alla compassione filantropica o al “narcisismo dei margini”.

Verso la fine degli anni ’60, dopo un paio di anni di collaborazione, seppur defilata, con la clinica di La Borde, nei quali la sua posizione antianalitica lo tiene lontano dai gruppi e dalle analisi ma vicino ai pazienti più agitati e “incurabili”, l’incontro con Janmari, dodicenne autistico grave e futuro protagonista del film Ce gamin-là, lo convince ad accettare l’invito di Felix Guattari a trasferirsi sui monti delle Cévennes per iniziare un nuovo “tentativo” con bambini psicotici le cui capacità comunicative sono fortemente compromesse. Ma non si trasferisce a Gourgas, dove Guattari accoglie, in una residenza di sua proprietà, gruppi della sinistra trotzkista, bensì a Graniers, un borgo isolato a pochi chilometri di distanza che Deligny dividerà con amici e bambini mutacici e che non abbandonerà più fino alla morte.

Nel suo lento, ma radicale distacco dalle istituzioni, l’incontro con l’autismo e la “fuga” sui monti non rappresentano, come spesso è stato detto, una cesura che rivelerebbe due Deligny: da una parte l’operatore militante al servizio della causa dell’infanzia delinquenziale e dall’altra l’etologo ed etnologo, poeta dell’autismo, ritiratosi al riparo dalle lotte politiche. Il “tentativo delle Cévennes” rappresenta piuttosto la conseguente evoluzione e il compimento di una critica che vedeva ormai inconciliabili le necessità delle istituzioni e quelle dell’infanzia. Non si avvicinerà però nemmeno all’esperienza libertaria di Summerhill il cui utopismo non corrisponde alla sua esperienza della follia collegata, attraverso la violenza, a quella della seconda guerra mondiale. La parabola dei suoi interventi disegna più semplicemente un ritiro della sfera pedagogica, un ripiegamento dell’intervento adulto, un superare, per sottrazione, il modello dell’attivismo e dell’educazione progressiva.

Senza nessun appoggio istituzionale, accogliendo ragazzi inviati da clinici fidati, fra i quali anche Maud Mannoni e Françoise Dolto, a Graniers crea una rete di “presenze vicine” (operai, contadini, braccianti disoccupati, operatori sociali ed emarginati, ma mai specialisti e educatori) regolate da un’economia di sussistenza e da questo “bisogno imperativo di immutevole” che definisce l’autismo. Una “zattera sui monti”, ai margini degli eventi del ’68, costituita da una mezza dozzina di “comunità” distanti da cinque a venti chilometri le une dalle altre, dove i ragazzi sono liberi di andare e venire e dove Deligny inventa alcune pratiche di intervento, né artistiche né terapeutiche, come le lignes d’erre, “linee-traccia”, che descrivono gli spostamenti e le azioni dei bambini mutacici nel territorio delle Cévennes. Una mappa che deve sempre meno al linguaggio e all’ordine del simbolico: “Non abbiamo un progetto terapeutico. Bisogna accettare di lasciarli vivere nell’‘assenza di linguaggio’ senza verbalizzare, il che sarebbe già interpretare e curare; accettare di non rieducare alla parola, che sarebbe già farli rientrare, per buona coscienza, nella nostra norma.”

Questo lavoro sempre più serrato sul linguaggio e la scrittura, si nutre dell’esperienza quotidiana di bambini che non possono fare affidamento sulla struttura psicologica e cognitiva della parola e donano agli ultimi scritti di Deligny, la loro particolare forma (vedi, in italiano, I bambini: i loro atti, i loro gesti e I bambini e il silenzio, entrambi editi da Spirali): un vero e proprio dispositivo documentario, che utilizza tracciati, incisioni, didascalie, fotografie, riprese video. Ed è soprattutto ai film (Moindre geste, presentato alla settimana della critica al festival di Cannes del ’71, Ce Gamin-là, Projet N) che in questi anni affida il compito di definire un territorio esterno al linguaggio ponendo il reale al di sopra di tutto in una sfera di percezioni allucinate senza corrispondenze nell’inconscio.

Già Graine de crapule (ripubblicato da poco in Francia in una ricchissima edizione delle Opere curata da Sandra Alvarez de Toledo per L’arachnéen)la raccolta d’aforismi che uscì per la prima volta nel ’45 di cui qui proponiamo una selezione e che racconta le intuizioni dei primi anni di lavoro, anticipava il bisogno di una scrittura sempre più rarefatta che affidasse a pensieri sciolti, motti di spirito e paradossi il compito di raccontare “come l’esperienza strapazza o sostiene la fragile ‘flottiglia’ dell’educazione attiva.” (Luigi Monti)