Intervista a Francesco Codello realizzata da Franco Melandri

UNA CITTÀ n. 136 / 2006FebbraioIntervista a Francesco Codello
realizzata da Franco Melandri

APPRENDIMENTO INCIDENTALE ORGANIZZATO
L’eterna alternativa fra un’educazione al dover essere, ‘uomo pio’, ‘buon cittadino’, anche ‘uomo nuovo’, ed educazione all’essere. La concezione di Tolstoj, di Neill, il fondatore della scuola di Summerhill, di Godwin, che pure erano dei militanti, mette al primo posto, sempre, la libertà degli esseri umani, lo sviluppo delle potenzialità, una concezione per cui si impara ad imparare. Intervista a Francesco Codello.

Francesco Codello è dirigente scolastico in un istituto di Treviso. Studioso della pedagogia sperimentale e libertaria, è redattore della rivista “Libertaria”. Recentemente ha pubblicato La buona educazione. Esperienze libertarie e teorie anarchiche in Europa da Godwin a Neill (Franco Angeli, 2005) e Vaso, creta o fiore. Né riempire né plasmare ma educare (la Baronata, 2005).Tu ti occupi di pedagogia libertaria, ma cosa distingue la pedagogia libertaria dal resto della pedagogia e cosa implica l’aggettivo “libertaria”?
Per rispondere occorre partire da una considerazione preliminare: studiando la storia della pedagogia si trova una costante, trasversale a quasi tutte le filosofie e le pedagogie, cioè, fondamentalmente, il germe dell’autoritarismo. Questo, a sua volta, consiste sostanzialmente nel fatto che, per delineare il possibile processo educativo, si parte dal presupposto di possedere un’idea precisa dell’uomo, della sua essenza. L’agire educativo si indirizza immediatamente al “dover essere dell’essere”, cioè a come l’essere umano empirico, quello che hai concretamente davanti, deve diventare. Ecco allora che tu lavori, ti muovi, fai, perché questo dover essere, l’idea di uomo che hai in testa, sia lo scopo finale dell’educazione. Per questo, a seconda del centro attorno a cui tale idea di uomo è fatta girare, abbiamo, come scopo dell’educazione, il buon cittadino, l’uomo pio e di buoni sentimenti, e così via.
Questa logica che fissa a priori cosa debba essere l’uomo è, indistintamente, una costante che si è accompagnata a moltissime pedagogie.
In questo senso la storia della pedagogia è, in gran parte, una storia di potere. E a questo genere di approccio non sono sfuggiti né l’illuminismo né il marxismo, ma non è sfuggito neppure un filone importante dell’anarchismo, cioè quello che nasce durante l’illuminismo all’interno del movimento socialista e che ha il suo apogeo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Anche secondo questo filone, l’educazione, che deve essere gratuita e per tutti, ha il compito di formare l’“uomo nuovo”, che per gli anarchici, così come per tutti i socialisti, coincide con l’“uomo libero”.
Il problema, tuttavia, è che rischia di non essere proprio così, dato che alla base c’è un’idea precostituita, un “dover essere” posto a priori. A fianco di questa impostazione c’è stato un altro filone pedagogico-educativo (quello libertario, che ho cercato di descrivere ne La buona educazione) che ha privilegiato invece l’“educazione all’essere”, non al dover essere. E’ un filone che nasce, come approccio consapevole, a fine Settecento, in Inghilterra, con William Godwin; lo si ritrova poi, a fine Ottocento, in Francia con Elisée Reclus, in Russia con Tolstoj e la scuola di Jasnaja Poljana, mentre nel Novecento mi pare soprattutto rappresentato, ancora in Inghilterra, da Alexander Neill e dalla sua scuola “Summerhill”.
Eppure anche Reclus, Tolstoj, Neill sono stati impegnati socialmente e politicamente…
Di questi solo Reclus apparteneva a un movimento organizzato -fu un esponente di spicco del movimento anarchico del secondo Ottocento-, mentre sia Neill che Tolstoj, pur essendo dichiaratamente dei libertari radicali, impegnati in varie battaglie politico-sociali, non si sono mai dichiarati esplicitamente anarchici, e proprio questo è stato un elemento che mi ha fatto riflettere. Mi è sembrato che nelle loro teorizzazioni e sperimentazioni, occhieggiasse, seppure con accentazioni diverse, un modo di sentire e di vedere che l’illuminismo, il positivismo e i socialismi che ne sono seguiti, pur con tutte le loro buone intenzioni, avevano messo in ombra, cancellato o non compreso. Come ho detto, infatti, anche nei filoni anarchici ottocenteschi, che pure sottopongono praticamente tutto a una critica radicale, prevale spesso un’idea precostituita di essere umano, quella che, per esempio, porta Proudhon ad identificarlo col lavoratore intelligente, che assume in sé la funzione “politecnica”, cioè il lavoratore in grado di stare intelligentemente dentro al processo produttivo. In seguito, all’interno della Prima Internazionale, nasce il dibattito sulla “educazione integrale” -cioè l’educazione di tutti gli esseri umani “a tutto campo” che dovrebbe durare tutta la vita e che è incentrata su un’idea “militante” dell’uomo-, un concetto che Paul Robin, Michail Bakunin, e in genere gli anarchici, estremizzano, pur con diverse sottolineature. L’idea della “educazione integrale”, in cui l’influenza positivista era fortissima, con aspetti sia negativi che positivi, si spiega col fatto che, all’epoca, le grandi masse erano totalmente escluse dal processo educativo, e contemporaneamente i sistemi scolastici stavano diventando “agenzie” al servizio dei vari stati nazionali. L’idea centrale della “educazione integrale” era appunto quella dell’“uomo nuovo”, che di fatto si reggeva su un’equazione: rispetto a condizioni di vita atroci (per noi oggi impensabili e che si ritrovano solo in alcune società extra-occidentali) in particolar modo dei bambini, delle bambine e dei giovani, lottare per il cambiamento sociale vuol dire lottare per un uomo nuovo, per una nuova antropologia, di cui vanno delineate le caratteristiche, che di per sé sono già manifestazioni di libertà. Questo importante filone educativo ha sicuramente avuto, sul piano pedagogico e didattico, alcune intuizioni geniali, come l’apprendimento cooperativo (cioè il fatto che i ragazzi, stando tra di loro, diventano reciprocamente insegnanti l’uno dell’altro e sono a volte più efficaci dell’intervento dell’adulto); l’attivismo pedagogico (cioè il superamento della lezione mnemonica e “frontale”, coi bambini che, invece, partecipano attivamente alla costruzione del loro sapere); l’uguaglianza e la coeducazione dei sessi, la diffusione della scienza, anche se, poi, quest’ultimo aspetto è caduto non raramente in uno scientismo esasperato. L’idea dell’uomo nuovo dette avvio a un movimento e ad un attivismo straordinari; in Italia ci fu il vasto esperimento delle “Università popolari”, che in Francia continua tutt’ora, e che segnò il tentativo di ricomporre l’essere umano al di fuori delle logiche dello sviluppo del capitalismo, del mercato del lavoro e della cultura settoriale di quegli anni.
A tutto questo Piotr Kropotkin aggiunse poi la grande intuizione della significatività della dimensione estetica dell’educazione e la necessità dell’abolizione della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che avrebbero dovuto permettere uno spazio sempre maggiore alla creatività, all’arte, all’espressione dell’essere.
Dietro a tutte queste ottime concezioni, come ho detto prima, c’è tuttavia un sentire ed un modo di vedere fondato su un’idea dell’uomo come militante, e dell’educazione come un’articolazione, certo importante, della costruzione del movimento rivoluzionario socialista o anarchico. E’ anche per questo che spesso intendono e praticano l’educazione non solo come il luogo della conoscenza, ma anche come la realizzazione di un pathos, di un metodo, di tanti aspetti che riguardano non gli esseri umani per come sono, ma i militanti politici rivoluzionari. I Tolstoj, i Neill, invece, anche quando condividono questa preoccupazione militante, la subordinano sempre alla libertà degli esseri umani, al fatto che l’educazione deve dispiegare quanto più possibile le loro potenzialità, al di là dello scopo a cui, poi, le indirizzeranno.
Queste differenti impostazioni pedagogiche si traducono, da un lato, nella visione dell’essere umano come un vaso che deve essere riempito o come creta grezza che deve essere modellata, e dall’altro come un fiore, che “è” già in sé, ma che deve essere aiutato a sbocciare.
I militanti, in sostanza, ragionano partendo dalla considerazione che una data società abbisogna di un certo tipo di persone e in qualche modo riprendono la concezione greca della paideia, che vuole formare individui atti a gestire la polis. Nell’altro caso, invece, il presupposto è radicalmente individualista: io ti aiuto a sbocciare e non mi riguarda cosa poi sarai e farai…
Intanto non è vero che il secondo sia un filone essenzialmente individualista: Tolstoj, Neill, Godwin non erano certo individualisti e anzi, nelle loro teorie e sperimentazioni, hanno spesso sottolineato la tensione continua, spesso creativa, fra individuo e comunità. Il bambino, la bambina, l’essere umano, devono trovare nella relazione educativa, nel contesto educativo, nell’humus che l’educatore semina intorno a loro, il modo di esprimere se stessi, perché solo così potranno affrontare attivamente l’ambiente sociale. Certo, anche questa concezione ha dietro di sé un’idea, seppur “aperta”, di essere umano (ma, mi chiedo, è possibile non averne proprio nessuna?), ma pone e accetta una sfida, che la libertà non possa essere imposta, mentre deve nascere da un atto volontario, da una pulsione individuale, se c’è; e se non c’è, non c’è. In Tolstoj e Neill, ad esempio, è profonda la consapevolezza che questa spinta alla libertà possa non esserci, o non arrivare, ma proprio per questo sostengono che la sfida va posta e accettata.
Il grosso problema dell’educazione, da sempre, gira attorno alla natura umana: dire che educare è “educare ad essere” in realtà cosa significa?
Schematizzando potrebbe anche significare che l’essere umano è predeterminato dal patrimonio genetico e dal contesto ambientale, per cui “educare” vorrebbe dire insegnare ad adattarsi. Al di là di queste banalizzazioni ed estremizzazioni, però, io credo che, come in tutte le grandi questioni filosofiche, la verità non stia mai da una parte sola. Nello sviluppo dell’essere umano c’è sì un intersecarsi di condizioni date, ma ci sono anche moltissime condizioni che mutano e che noi contribuiamo, col nostro agire, a mutare.
La volontà individuale esiste, esiste l’atto individuale, e ognuno di noi è parte costitutiva dell’essere, per questo contribuisce a costituirlo in quanto tale, col suo agire e le sue decisioni. Da tutto ciò deriva che la condizione educativa deve essere quella che, liberandoti dal dover essere imposto a priori, ti mette in grado di fare consapevolmente i tuoi atti volitivi per segnare il tuo futuro. Fra l’altro, è per questo che, in campo educativo, libertà e responsabilità coincidono.
E’ però anche vero che, soprattutto nella generazione dei “sessantottini”, l’educazione totalmente libera spesso data ai figli, all’atto pratico si è non raramente tradotta in un disastro: ragazzi capricciosi, senza carattere, pieni di pretese. Dov’è allora la differenza tra l’educazionismo libertario di cui parli tu e questo atteggiamento?
Prima di tutto va sottolineato che questa educazione, che non ha voluto riconoscere e valorizzare le differenze tra adulto e bambino, che ha confuso l’atto volitivo e responsabile col capriccio e col desiderio momentaneo, non è un’educazione libertaria, e non lo è proprio perché basata sulla finzione che adulti e bambini siano uguali. Negare questa differenza è una finzione ideologica pericolosissima, che si traduce, e non può non tradursi, nella produzione di mostruosità. La differenza fondamentale fra questa educazione e una educazione libertaria, anche quella più mirata all’“educare ad essere”, sta nel rispetto, nella profonda considerazione e assunzione delle differenze, che è, anche questo, un atto di volontà. Ecco perché insegnare, essere educatori, è difficile, perché ci sono tanti bravi insegnanti e pochissimi bravi maestri. Il maestro, a differenza dell’insegnante, è quello che non solo trasmette conoscenze, ma riesce anche a tirare fuori dal suo interlocutore quello che ha dentro, che riesce a farglielo analizzare, facendolo scoprire responsabile verso se stesso. E’, insomma, la soluzione maieutica…
In questo senso non c’è, non può esserci, parità tra allievo ed educatore. Come diceva Tolstoj, la situazione educativa nasce dall’incontro tra un bisogno di trasmettere delle conoscenze, di comunicare delle esperienze, di raccontare delle vite e un bisogno di apprendere. E’ un incontro che sta su una linea mobile, ed è per questo che educare in senso libertario è concretamente difficile: occorre stare sempre in questa tensione etica, in questo rispetto profondo, non formale.
Si cammina sempre su un filo molto sottile, che è appunto quello di saper riconoscere la libertà dal permissivismo: il permissivismo non è libertà, è anzi l’altra faccia dell’autorità. Autoritarismo e permissivismo nascono dal disprezzo di se stessi e degli interlocutori che si hanno davanti, mentre, al contrario, il rispetto nasce dal bisogno reciproco di incontrarsi.
La critica feroce che tutti i libertari e gli anarchici hanno fatto a Rousseau ed al suo Emilio è fondamentale per capire questo passaggio. Nell’Emilio, per esempio, l’ambito educativo è ristretto al solo rapporto fra maestro ed allievo, è un laboratorio astratto. Ma questa non è la realtà: l’educazione non è, in termini esclusivisti, solo quello che passa tra maestro e alunno, è lo spazio specifico di una situazione sociale, è un equilibrio che non è mai dato compiutamente e che si rinnova continuamente in un’eterna approssimazione, è un rapporto dialogico, non dialettico, che si muove, si insinua, di cui non c’è una sintesi, è un’evoluzione continua il cui risultato non è dato. Anche per questo, per rimanere nell’esempio della scuola di Summerhill (che copre l’arco che va dalle scuole per l’infanzia alle medie), l’intera gestione -dai programmi didattici alla vita quotidiana, dalle pulizie ai pasti- è attuata pariteticamente dagli insegnanti e dagli allievi, attraverso riunioni specifiche, assemblee generali o “di settore”, e così via.
Chiarito tutto questo, tuttavia, rimane il fatto che anche l’educazionismo libertario deve fare i conti coi saperi che sono necessari per essere soggetti attivi nella società in cui si vive. L’“uomo politecnico” di Proudhon, o l’“individuo militante totale” di Bakunin, in fondo rispondevano anche a questa esigenza…
Quella dei saperi è una questione grossissima. Il filone di educazione libertaria rappresentato da Summerhill ha posto, in modo anticipatorio, un problema che oggi si pongono in tanti, cioè il rapporto tra la dimensione esistenziale e valoriale del giovane, da un lato, e, dall’altro, le conoscenze culturali necessarie per pensare al proprio posto nel mondo.
La grossa sfida, mai compiutamente risolta e che rappresenta un po’ il faro cui tendere, è il non privilegiare nessuno dei due aspetti, cercando di far convivere il momento relazionale e quello dell’istruzione. Bisogna creare una condizione in cui la relazione educativa, da tutti riconosciuta come fondamentale nel creare le motivazioni e le capacità critiche del giovane, non annulli o metta in secondo piano l’acquisizione delle conoscenze, l’apprendimento dei saperi indispensabili.
Uno degli strumenti principali per ottenere questo risultato è stato identificato nella creazione di condizioni di istruzione che si fondino sulla “metacognizione”, cioè sull’acquisizione del metodo col quale si impara a imparare, perché i contenuti cambiano, le scienze si evolvono, ma il come si impara a imparare rimane abbastanza stabile nel tempo e nel mutare dei saperi. Il concetto di metacognizione è stato, con una anticipazione di duecento anni, introdotto per primo proprio da Godwin, è stato a lungo sperimentato anche a Summerhill, ed è, al momento, una delle prospettive che pare risolvere questo problema.
Neppure esso, però, è esente da ombre, in particolare il rischio di diventare una sorta di bacchetta magica e di creare nuove condizioni di diseguaglianza. Oggi, infatti, il mondo è globalizzato, i centri dell’informazione e della produzione si spostano continuamente, cosicché la velocità e la flessibilità sono diventati i valori e i parametri secondo cui si costruiscono e perpetuano sempre più i sistemi scolastici delle varie società.
Perché è chiaro che quelle che oggi servono all’economia non sono persone che hanno conoscenze specifiche, ma persone che hanno delle metodologie di acquisizione delle conoscenze. In questo modo però, quasi paradossalmente, l’esaltazione della metacognizione, rispetto all’acquisizione di contenuti, è diventato il parametro attraverso il quale passa il potere all’interno dei sistemi scolastici: anche il valore della metacognizione è stato calato in una concezione consumistica dell’educazione e dell’istruzione, una concezione per la quale non conta la tua qualità come individuo, ma la tua adattabilità al sistema economico. Secondo me questa tendenza va, ovviamente, contrastata, mentre la salvaguardia della metacognizione (per anni ci siamo battuti contro il nozionismo!) dalla sua strumentalizzazione economicistica può forse passare dal confronto, oggi ineludibile anche nei momenti educativi, con i valori e le storie che non sono propri dell’Occidente. Noi, in sostanza, abbiamo bisogno non solo di far acquisire, e di acquisire noi stessi in quanto educatori, queste capacità metacognitive, ma abbiamo anche bisogno di ragionare sui contenuti, di saperli selezionare, di saperli sedimentare. Abbiamo cioè bisogno di recuperare una condizione di “saggezza” nella conoscenza, di abituarci, e di abituare le persone con cui interloquiamo dal punto di vista educativo, a riacquistare tempi diversi, a digerire e riverificare i contenuti sulla base delle nostre sensibilità; tutte cose che il sistema economico e politico mondiale odierno non favorisce. Le scuole, infatti, sono diventate dei supermercati dell’istruzione e i ragazzi non hanno più la capacità di trattenere nulla proprio perché lo scopo è che consumino, quindi che consumino velocemente anche le conoscenze.
Tutto questo ci porta alle esperienze, passate o ancora in atto, di educazione libertaria…
Nel passato, oltre a quelle di Reclus e Tolstoj, già citate, le esperienze più importanti sono state l’orfanotrofio organizzato da Paul Robin, “La Ruche”, gestito per oltre un decennio da Sebastien Faure, “L’avenir social”, ideato e gestito da Madeleine Vernet, tutte in Francia, la scuola Ferrer di Losanna, senza contarne tante altre, più piccole o effimere, in Inghilterra e in Germania, tutte sviluppatesi fra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento.
A parte il caso di Tolstoj e Reclus, queste scuole condividono la costante di essere figlie del loro tempo, in particolare del positivismo. Ciononostante sono state dirompenti, perché hanno dimostrato che era possibile creare un contesto educativo che avesse dei presupposti libertari: uguaglianza fra gli allievi e fra gli allievi ed i docenti, trasmissione universale del sapere, coeducazione dei sessi, attivismo pedagogico. Tra l’altro sono state le prime scuole a praticare le passeggiate, le uscite in bicicletta, le gite scolastiche, come metodi educativi. Dal mio punto di vista, però, queste scuole non hanno saputo -forse non erano in grado di farlo- ripensare fino in fondo i rapporti di potere adulto-bambino. Questo rapporto, invece, è stato tematizzato e trasformato (è il suo grande merito) nell’esperienza di Neill, Summerhill, avviata prima della Seconda Guerra Mondiale e tuttora esistente.
Un posto a parte merita invece la Escuela moderna, organizzata da Francisco Ferrer (che finì fucilato dalla repressione militare nel 1911) a Barcellona, nei primi anni del Novecento. L’Escuela moderna è sicuramente l’esperienza più conosciuta, non solo fra gli anarchici, ma a mio avviso è anche la meno interessante e la più discutibile. Pur con molte delle caratteristiche libertarie cui accennavo sopra, professava tuttavia il razionalismo puro ed insegnava l’ateismo, quindi attuava il misconoscimento di alcune dimensioni della personalità che io, invece, credo debbano avere diritto ad un loro spazio. Ferrer è sicuramente stato un grande divulgatore, un grande organizzatore, in nome suo sono nate centinaia di scuole sia in Spagna che in tutto il mondo -tutt’ora esiste, negli Stati Uniti, un’associazione “Scuola moderna Ferrer” che ha delle scuole funzionanti-, ma il suo razionalismo estremo ed il suo esasperato positivismo sono stati anche il suo limite. Un limite spiegabile anche col fatto che doveva fare i conti col contesto storico della Spagna dell’epoca, nella quale l’influenza della Chiesa nell’educazione era tremenda, devastante, ma che, comunque, non può giustificare un atteggiamento in fondo altrettanto “settario” in senso razionalistico e positivistico.
Quasi tutte le scuole libertarie esistenti attualmente, invece, si ispirano all’esperienza di Neill, anche se altri personaggi sono via via stati importanti nello sviluppo di questo tipo di esperimenti. Negli Stati Uniti, per esempio, è stato molto importante Paul Goodman; in Messico lo è stato Ivan Illich, tutti pensatori ed educatori che potremmo definire “di strada”, che andavano nei quartieri più degradati o nei villaggi più sperduti e lì avviavano delle scuole, un po’ come Socrate che aveva la strada come aula. Queste scuole hanno oggi un’estensione di tutto rispetto, ce ne sono in quasi tutti i paesi, in tutti i continenti, persino in Africa; dappertutto tranne che in Italia. Praticamente tutte fanno riferimento all’International Democratic Education Network (Iden) e le loro caratteristiche sono state ribadite l’estate scorsa, nell’incontro che hanno avuto a Berlino.
Fondamentalmente affermano e praticano il principio che il bambino, la bambina, gli adolescenti, hanno il diritto di decidere personalmente come, cosa, quando e con chi imparare, il che implica il diritto di decidersi le proprie regole, ed eventualmente le sanzioni conseguenti per chi non le rispetta.
Queste scuole si reggono, pur con sfumature diverse (è un arcipelago vastissimo, che sperimenta cose diversissime) sulla ricerca dell’unanimità, o comunque su maggioranze molto qualificate, tra tutti coloro che vivono l’esperienza scolastica, dal bambino di tre anni al direttore o alla direttrice della scuola. Conseguente a questa affermazione di principio è la partecipazione non obbligatoria alle lezioni, e quindi, anche qui, la costruzione di gradualità e caratteristiche diverse nel curriculum di studio di ogni ragazzo.
L’idea di fondo è che sei tu ad organizzarti per imparare, anche se ci sono comunque scuole in cui esiste una parte obbligatoria e una parte opzionale, altre in cui non esiste nessuna parte obbligatoria. Il principio ispiratore è, insomma, una sorta di “apprendimento incidentale organizzato”, per usare un’espressione di Goodman che può sembrare contraddittoria.
Come mai in Italia non esiste nessuna scuola di questo tipo?
Credo che questa mancanza dipenda soprattutto da due fattori. Prima di tutto la storia del sistema scolastico italiano, che ha avuto un compimento tardivo rispetto agli altri paesi europei ed occidentali. Solo nel 1911 abbiamo, anche sotto la spinta delle battaglie del Partito socialista e di quello repubblicano, una legge dello Stato che, togliendola ai Comuni, avoca a sé l’istruzione primaria. Una legge del genere, che in Francia era stata fatta almeno cinquant’anni prima, comportava un sistema scolastico abbastanza omogeneo su tutto il territorio, quindi “fare gli italiani”, e soprattutto laicizzare l’istruzione, togliendola all’influenza, prevalentemente clientelare, dei piccoli potentati locali e, in particolare, della Chiesa. Questo processo si è però dovuto subito scontrare con la Prima Guerra Mondiale, poi col fascismo, con la Seconda Guerra mondiale e tutto ciò che ne è seguito, la qual cosa ha comportato sviamenti, ritardi, compromessi.
Accanto a questa prima ragione storico-istituzionale, c’è poi, secondo me, il fatto che la stragrande maggioranza della sinistra italiana è sempre stata fortemente statalista e non ha mai pensato, non lo fa tutt’ora, che al di fuori dello Stato e del privato, della Chiesa o della Confindustria, possano esistere situazioni educative significative, che vanno riconosciute. A queste ragioni va aggiunto il fatto che, evidentemente, nessuno si è mai impegnato per costruire esperienze di questo genere. In Italia, comunque, ci sono stati alcuni pensatori, primo fra tutti Lamberto Borghi, che hanno avuto l’intelligenza e la sensibilità di trasferire questo enorme patrimonio di stampo libertario all’interno del sistema scolastico pubblico, gli hanno riconosciuto una dignità, evidenziandone anche le eventuali contraddizioni. Importante è stata pure l’esperienza della rivista “Scuola e città”, che ha influenzato particolarmente le scuole di Firenze, e poi tante microesperienze dentro la scuola pubblica, che hanno innovato, con coraggio e grandi intuizioni, ottenendo risultati eccellenti. E’ anche per questo, ed è un aspetto fortemente positivo del caso italiano, che la scuola pubblica (proprio grazie alla cultura del nostro paese, ad iniziative individuali, di movimento eccetera) ha permesso al suo interno una grande sperimentazione sul piano didattico -anche se “didattico” non è, di per sé, “educativo”.
Nonostante tutti i tentativi fatti in questi anni, da parte dei governi di destra e di sinistra, per distruggere queste esperienze, noi possiamo comunque vantare una tradizione innovativa sulle tecniche dell’insegnamento, una tradizione che è inversamente proporzionale all’ordine della scuola: la sperimentazione, infatti, è alta nelle scuole per l’infanzia, nulla o quasi nell’università. Forse anche per questo la nostra scuola ai livelli bassi risulta ancora tra le migliori del mondo, ma più in alto vai, peggio è.
In Italia, al termine dei diversi gradi scolastici abbiamo gli esami coi conseguenti diplomi, la stessa cosa vale anche per le scuole tipo Summerhill?
Certamente c’è un esame finale, che però, invece di essere fatto dalle scuole stesse, viene fatto da una commissione esterna.
La differenza fra Summerhill e le scuole pubbliche, o private “normali”, è che il ragazzo arriva a sostenere l’esame quando decide lui di essere pronto per farlo. Scompare cioè, radicalmente, l’associazione età-diploma, età-classe, eccetera. In alcuni paesi -per esempio Nuova Zelanda, Israele, Stati Uniti-, questo tipo di scuole si sta sempre di più diffondendo anche con finanziamenti pubblici: ci sono le charter school, in cui, come dice la parola, tu presenti un progetto di scuola, se approvato ricevi un finanziamento e devi garantire alcuni standard generali, che vengono poi esaminati. Questo non solo non è sbagliato, ma è quello che la sinistra italiana non ha mai voluto capire, che ancora non vuol capire